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Non si esagera dicendo che De André è il più grande o tra i più grandi cantautori italiani ed europei del Novecento. La ricchezza e la profondità delle sue composizioni stupiranno e incanteranno generazioni e generazioni come ne hanno incantate da decenni.

In questo breve scritto intendiamo sintetizzare gli aspetti principali della sua poetica.

Dalla vita all’arte

L’infanzia genovese di De André corrisponde al quadro del figlio annoiato di buona famiglia: bravate in gruppo, bande di ragazzi, e più tardi bevute, corse in auto. Nella giovinezza di De André, con il suo ribellismo sterile, troviamo la fonte più ovvia e superficiale di ispirazione della sua poesia, è la fonte a cui arrivano i suoi fan più superficiali che così possono facilmente immedesimarsi nelle azioni da teppistello che chiunque da giovane ha fatto o almeno ha immaginato. A queste azioni seguivano punizioni familiari che spingevano ovviamente a nuove azioni. La scuola andava male e ciò allontanava De André dal fratello. Uno dei motivi per cui si ribellasse a tal punto alla scuola è da ricercarsi proprio nella circostanza che il padre ne gestiva una e dunque la scuola, che già di per sé è uno strumento di coercizione sociale, per De André assumeva i contorni dell’istituzione oppressiva per eccellenza, dove si univa repressione sociale e familiare. In questo periodo i genitori lo spinsero a prendere lezioni di violino e poi di chitarra.

Le prime passione musicali di De André furono il country e il jazz, nonché i cantautori francesi (Piaf, Becaud e poi soprattutto Brassens).

Negli anni del liceo, sempre ribelle, De André comincia a occuparsi di “spettacolo” (recite, ecc.) e comincia a conoscere le ragazze con cui, dice il libro, aveva un successo strepitoso. Va anche maturando il suo anarchismo sempre più cosciente (nemmeno diciottenne si iscrive alla federazione anarchica), con la sua insofferenza per l’inquadramento. Sempre in quel periodo si mette con una prostituta (Anna) e diviene contemporaneamente alcolista e stirneriano (qualcuno potrebbe dire, post hoc quia propter hoc!). La vita da debosciato, tra feste, donne e alcol continuava insieme ad alcuni amici (Villaggio e altri), favorita dal semplice fatto che De André aveva comunque le spalle coperte. All’inizio degli anni ’60 De André comincia a comporre. Le sue prime canzoni sono episodi separati, anche se in fondo il senso è sempre comune e ricostruisce una poetica unitaria tipica del poeta maledetto che canta gli emarginati le cui azioni, spesso eclatanti, non conducono comunque a nulla.

In questo periodo De André conosce la sua prima moglie, Puny, anch’essa altolocata. Inizia ad incidere (Nuvole barocche, La ballata del Miché ecc.) e conosce anche Ricordi che lo incoraggia nonostante le divergenze politiche (Ricordi era comunista). Nel complesso quello fu il periodo più normale di De André. Lavorava nella scuola del padre, studiava legge, si era sposato con Puny, aveva avuto Cristiano. Sono anche gli anni in cui De André compone La guerra di Piero (che rimase invenduta fino all’esplodere del ’68-’69) e La canzone di Marinella. La sintesi di questo periodo è “Volume I”, che contiene poesie di grande livello e che giunse secondo in classifica (in quel periodo De André subisce anche il processo, poi archiviato, per Carlo Martello).

Sin da subito si vede quella che è la sua pecca maggiore. Per citare Rino Gaetano “abbasso le canzoni senza fatti e soluzioni” e le canzoni di De André sono proprio sempre così: storielle a lieto fine (rovesciando la morale costituita), in cui spesso va a finire bene (Il gorilla, Bocca di Rosa, Carlo Martello), o malissimo (Miché, Piero, ecc.) ma comunque vada non c’è nessuna alternativa praticabile, come fossimo all’interno della più rigida tragedia ateniese. La svolta della carriera arrivò con l’interpretazione di Marinella fatta da Mina. Con quel passaggio De André si impose come un grande della musica leggera. Fu un vantaggio perché arrivò sulla scena appena prima dell’esplosione delle lotte, con una tematica non qualunquista (canzoncine d’amore ecc.) ma nemmeno impegnata e dunque un perfetto artista di transizione.

L’anno dopo venne registrato “Tutti morimmo a stento” che è forse la punta massima della poetica da alcolista anarchico che De André allora incarnava. Poco dopo uscì “Volume III”.

In quel periodo De André ancora non si esibiva. Non si riteneva capace di esibizioni live e probabilmente la sua timidezza non era una maschera. I primi tre lavori, anche se non del tutto ex ante, erano di fatto già concept album. Le tematiche erano le stesse, a volte affrontate con flash su epoche storiche e situazioni molto distanti, tuttavia ogni canzone era fruibile (e lo fu anche commercialmente) anche da sola.

Nel 1970 esce invece “La buona novella” che è il concept album per eccellenza. All’uscita, ma anche dopo, molti non capirono questo disco e De André se ne lamentò. Ma l’incomprensione era inevitabile. La classe operaia, dopo venticinque anni di sostanziale passività, stava passando all’attacco, con un’irruenza che prese di sorpresa tutti, riversando sulla società borghese una sana ferocia proletaria e questo disco arriva, al massimo, a fare qualche critica qui e là alla religione ufficiale, religione che tra i giovani era totalmente screditata. Era un disco che avrebbe fatto scandalo nel ’66 ma era decisamente indietro rispetto al movimento nel ’70. Peraltro l’idea che i Vangeli apocrifi siano in qualche modo più contestatori di quelli ufficiali non ha nessuna base storica né letteraria (basta leggerli per vedere che, se mai, rappresentano l’anima più retriva e superstiziosa del cristianesimo). In un momento in cui centinaia di migliaia di giovani si attrezzavano per fare una rivoluzione vera (persino militarmente), De André gli diceva di guardare all’esempio di un rivoluzionario mai esistito. Davvero un po’ poco. L’anno dopo compose “Non al denaro…”, che è un altro concept album eccellente. Il lavoro di traduzione dell’antologia di Spoon River è eccezionale. Peraltro in questo disco entra il giovanissimo Nicola Piovani. Con quel gruppo De André compose l’anno dopo “Storia di un impiegato”. Eravamo nella piena dell’onda delle lotte e finalmente se ne accorse anche lui, a suo modo. Poiché Piovani e altri erano compagni, De André li “riequilibrò”:

“C’era il gruppo marxista, che erano Dané, Piovani, Bentivoglio…avevo i fondamentalisti. Io ho voluto qualcuno che la pensasse come me…”

Peraltro le idee politiche di Piovani emergono anche dal fatto che anni dopo compose la colonna sonora del “Treno di Lenin”. Comunque quell’album, tra i migliori di Fabrizio, rappresenta il tentativo più alto e sincero di De André di entrare in contatto col movimento. Lo fa concependosi al di fuori di esso, anzi a movimento finito, come un suo complice che decide di buttarsi nella mischia quando ormai è tutto finito. Ovviamente e coerentemente concepisce il proprio impegno politico da vero narodniki come un bombarolo che paga le conseguenze della propria attività dinamitarda. Le sue idee anarchiche emergono da ogni parola dell’album così come il legame tra queste idee e i suoi problemi familiari (sua madre dovrebbe accettare la “bomba” cioè le idee politiche, con serenità; lui vuole prendere il posto di suo padre, e in realtà lo aveva preso come preside della scuola!, ecc.). Sentiamo che ne dice Piovani:

“In questo album ci sono le prime inclusioni di strumenti elettronici. È comunque un disco un po’ più ideologico del precedente. Proprio per questo è abbastanza penalizzato. L’ideologia a quel tempo andava di moda. Lui è un anarchico, sì, ma non è che sia un disco marxista-leninista, è un disco che anche per un anarchico può andare bene.”, e poi prosegue spiegando che “Non al denaro…” in quanto solo opera poetica “sta sempre a galla”, ma che comunque meglio album come “Storia di un impiegato” di opere puramente ideologiche.

Fu in quel periodo che De André si comprò L’Agnata, in Gallura, e che il rapporto con Puny entrò in crisi definitivamente a causa delle relazioni con altre donne.

“Storia di un impiegato” chiude un ciclo. Dopo quell’album De André perse completamente la vena artistica. È certo un problema personale ma anche sociale: il movimento operaio era ancora in avanti e questo confliggeva con tutte le idee politiche di Fabrizio. D’altra parte non stava vincendo e questo significava, in prospettiva, una situazione non migliore. Fatto sta che se fosse dipeso da lui non avrebbe scritto nulla forse fino a “Rimini” e oltre. Ma ovviamente non si poteva. Così gli fecero conoscere De Gregori. In proposito ci sono da osservare due cose: De Gregori viene dallo stesso identico milieu di De André (“in famiglia stava avendo gli stessi problemi vissuti da Fabrizio”); artisticamente sono su due mondi separati. Non si può spiegare facilmente. A volte De Gregori è più esplicito nei testi ma non è questo. Semplicemente non c’entravano nulla. Peraltro lo stesso De André ammise il tutto:

“Effettivamente in quel periodo ero in crisi e, piuttosto che non scrivere nulla, mi sembrò giusto mettermi a tradurre”

Così nel ’74 uscì “Canzoni” che sinceramente è un album di basso livello anche se qui e là ci sono dei guizzi divertenti. Dylan che filtra in De André attraverso De Gregori produce la noia mortale de La cattiva strada; Dylan che entra in De André direttamente produce canzoni magistrali come Avventura a Durango. Nel ’75 De André conobbe Dori Ghezzi che poi si sposò e con cui ebbe nel ’77 Luvi (Luisa Vittoria). È importante notare che Dori è l’unica presenza operaia nella vita di Fabrizio. In quel periodo De André sarebbe anche potuto finire suicida, morto di cirrosi o cose simili. I piedi per terra di un ambiente proletario gli salvarono la vita e lo rimisero in carreggiata. Che artisticamente le cose non fossero migliorate lo dimostra “Volume VIII” di cui si salva forse Amico Fragile di cui lo stesso Fabrizio dice:

“è forse la canzone più importante che abbia mai scritto, sicuramente quella che più mi appartiene. Perché le canzoni che scrivo mi appartengono solo in parte.”

In ogni modo in quel periodo De André decise di esibirsi dal vivo. A dimostrazione della posizione che De André occupava sulla scena artistica del periodo, la tournée si svolgeva in feste dell’Unità, di Lotta Continua e poi alla Bussola, tanto per non accontentare nessuno. Un po’ il contatto con il pubblico, un po’ la crisi del movimento danno De André di nuova linfa. Esce così “Rimini” (in cui si cita apertamente Lama che viene contestato alla Sapienza), che dovrebbe (secondo alcuni) essere “uno spietato ritratto della piccola borghesia, della sua assenza morale e politica che consente di raggiungere i propri obiettivi”, ma che sembra piuttosto il tentativo di capire che cosa stava uscendo fuori dal calderone del ’77. Poco dopo ci fu la tournée con la PFM. A tal proposito c’è da dire che artisticamente la cosa fu un enorme successo perché i dischi che ne sono usciti sono eccellenti, ma si trattava lo stesso di un’unione senza principi con palesi scopi commerciali che non si tentò neppure di nascondere. Mussida selezionò alcune canzoni di De André che gli sembravano adatte a loro, fecero la tournée e poi amici come prima. Gli arrangiamenti furono davvero felici e alcune canzoni ne emersero ancora meglio, a dimostrazione della profondità del loro tessuto poetico, ma il senso complessivo dell’operazione aveva il respiro corto. In quel periodo peraltro fare concerti era dura, con risse, gruppetti che si menavano, lo stesso De André contestato ecc.

Gli anni ’70 si chiusero per De André nel modo peggiore, con il rapimento durato mesi e che debilitò non poco la coppia. È divertente che uno dei rapitori, che era di sinistra, “si mostrò dispiaciuto che anche Dori, figlia di operai, fosse stata rapita. Spiegò che quella era la sua unica possibilità di lavoro. De André capì che era vero”. Effettivamente l’anno dopo fu arrestata la banda al completo, uno era un assessore del Pci in Barbagia.

In quel periodo escono “Una storia sbagliata” (dedicato a Pasolini, con cui senz’altro De André aveva punti di contatto) e l’anno dopo l’album “L’indiano”. Il disco contiene canzoni molto belle e cui fa seguito una lunga tourneé. È anche il periodo in cui Fabrizio incontra Pagani, con cui creerà “Creuza de Ma”. Questo album aveva almeno due scopi artistico-politici: contrastare lo strapotere della dance music e dare un esempio concreto di musica mediterranea. Pagani era conscio del legame con la fase politica attraversata e infatti dice:

“Il movimento in pratica era finito…Ci si sentiva un po’ tutti soli, in balia degli eventi…Entrambi volevamo dare una valenza di opposizione al segno predominante americano”

Quell’album ricevette una marea di riconoscimenti. Il disco non ha molte “valenze sociali” come De André disse dopo, ma era un grande disco. Seguono sette anni di Sardegna, qualche lutto familiare e poi “Le Nuvole”, in cui si cita il conflitto tra Socrate e i benpensanti di allora (Aristofane appunto) come specchio per attaccare i benpensanti di oggi. Secondo molti, questo è il suo disco più politico. Indubbiamente, in un periodo di esaltazione reazionaria dopo il crollo dello stalinismo, De André si difese bene (prendendo posizione a favore di “Curcio il carbonaro” e così implicitamente legittimando la tendenza politica che, forse, sentiva più vicina a lui del movimento). L’album va benissimo, e così la tournée. Infine, sei anni dopo, è la volta dell’ultimo album a cui De André poté lavorare, “Anime salve”, che si concentra sul tema delle minoranze, in un periodo in cui razzismo e ideologie reazionarie in genere hanno una presa notevole. Dopo l’album Fabrizio fece due serie di concerti, una delle quali a teatro. Nel ’98 gli venne diagnosticato un inguaribile cancro ai polmoni. L’anno dopo ci ha lasciato.

temi centrali che emergono dalla vita di De André sono:

– il rapporto con la campagna, dove visse a lungo da piccolo e dove volle tornare, con enorme sperpero di denaro, con la tenuta in Sardegna;

– il conflitto con l’ambiente borghese incarnato soprattutto nella figura del padre e che determina il ribellismo giovanile, mai superato, almeno ideologicamente, nelle fasi successive;

– la ricerca dell’emarginazione vista come un’esclusione totale, assoluta dalla società, dalle convenzioni dominanti. De André non è mai stato interessato al movimento reale che trasformava la realtà, ma piuttosto alle figure, apparentemente senza tempo, che restano ai margini di questa lotta, spesso benevolmente, ma che non vi possono proprio partecipare. Per lui il punto sociale più lontano possibile dalla famiglia e dalla classe dominante non era un partito rivoluzionario ma una bettola o la camera di una prostituta. Canta delle rivoluzioni a rivoluzioni finite, mostra pietà per gli umili, ma presi uno ad uno; il marginale è in De André una figura quasi primitiva che sola, conserva la purezza originaria nelle diverse fasi di sviluppo attraversate dall’uomo;

– il disprezzo per le opinioni dominanti che, negli anni ’70, erano spesso opinioni di sinistra persino nei circoli borghesi frequentati da De André. Indubbiamente il Pci di Genova, stalinista all’ennesima potenza, non ha aiutato, ma c’è una vena ancora più forte di volontà di autoescludersi dal movimento, di convinzione che qualunque massa di persone condividano un’idea la renda in qualche modo infetta. All’epoca delle lotte si bollava la poetica di De André come decadente e disfattista, il che è vero ma significa poco. La sua decadenza sta nell’entrare in scena al momento della sconfitta, il suo disfattismo sta nel descrivere la ritirata. Ecco perché quando la ritirata diviene rotta, De André ha un rigurgito di orgoglio. Per oltre un quinquennio tace, ma poi erutta. Ecco che quando c’è chi rinnega quello che non è mai stato, De André difende la profonda moralità della lotta e di chi l’ha combattuta e si fa beffe dei cantanti che cantano “per i longobardi e per i centralisti/ per l’Amazzonia e per la pecunia/ nei palastilisti/ e dai padri maristi”. Prima dell’esplosione del movimento di lotta, De André si limita a farsi beffe del perbenismo borghese, sintetizzato dalla doppia morale sessuale e dal ruolo della prostituzione. Dopo la centrifuga del ’68’-75, va oltre e mette a nudo i fili stessi della società. Fuori tempo massimo.

– questo vale anche per l’amore, sempre sfortunato, sempre stereotipato sempre uguale a se stesso nella sua fine triste scritta nelle sue stesse premesse. Per De André l’amore è come la rivoluzione, ne diveniamo coscienti a occasione perduta; in mezzo è solo una bolgia confusa, pericolosa e massificante.

Bocca di rosa
La chiamavano bocca di rosa
Metteva l’amore, metteva l’amore
La chiamavano bocca di rosa
Metteva l’amore sopra ogni cosa
Appena scese alla stazione
Nel paesino di Sant’Ilario
Tutti si accorsero con uno sguardo
Che non si trattava di un missionario
C’è chi l’amore lo fa per noia
Chi se lo sceglie per professione
Bocca di rosa né l’uno né l’altro
Lei lo faceva per passione
Ma la passione spesso conduce
A soddisfare le proprie voglie
Senza indagare se il concupito
Ha il cuore libero oppure ha moglie
E fu così che da un giorno all’altro
Bocca di rosa si tirò addosso
L’ira funesta delle cagnette
A cui aveva sottratto l’osso
Ma le comari d’un paesino
Non brillano certo in iniziativa
Le contromisure fino a quel punto
Si limitavano all’invettiva
Si sa che la gente dà buoni consigli
Sentendosi come Gesù nel tempio
Si sa che la gente dà buoni consigli
Se non può più dare cattivo esempio
Così una vecchia mai stata moglie
Senza mai figli, senza più voglie
Si prese la briga e di certo il gusto
Di dare a tutte il consiglio giusto
E rivolgendosi alle cornute
Le apostrofò con parole argute
“Il furto d’amore sarà punito”
Disse “dall’ordine costituito”
E quelle andarono dal commissario
E dissero senza parafrasare
“Quella schifosa ha già troppi clienti
Più di un consorzio alimentare”
Ed arrivarono quattro gendarmi
Con i pennacchi, con i pennacchi
Ed arrivarono quattro gendarmi
Con i pennacchi e con le armi
Spesso gli sbirri e i carabinieri
Al proprio dovere vengono meno
Ma non quando sono in alta uniforme
E l’accompagnarono al primo treno
Alla stazione c’erano tutti
Dal commissario al sacrestano
Alla stazione c’erano tutti
Con gli occhi rossi e il cappello in mano
A salutare chi per un poco
Senza pretese, senza pretese
A salutare chi per un poco
Portò l’amore nel paese
C’era un cartello giallo
Con una scritta nera
Diceva “addio bocca di rosa
Con te se ne parte la primavera”
Ma una notizia un po’ originale
Non ha bisogno di alcun giornale
Come una freccia dall’arco scocca
Vola veloce di bocca in bocca
E alla stazione successiva
Molta più gente di quando partiva
Chi mandò un bacio, chi gettò un fiore
Chi si prenota per due ore
Persino il parroco che non disprezza
Fra un miserere e un’estrema unzione
Il bene effimero della bellezza
La vuole accanto in processione
E con la Vergine in prima fila
E bocca di rosa poco lontano
Si porta a spasso per il paese
L’amore sacro e l’amor profano

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