GIACOMO LEOPARDI E IL PENSIERO DOMINANTE
Cinzia Baldazzi
Adì 14 giugno 1837 morì nella città di Napoli questo mio diletto fratello divenuto uno dei primi letterati d’Europa: fu tumulato nella chiesa di San Vitale sulla via di Pozzuoli. Addio caro Giacomo: quando ci rivedremo in Paradiso?
Paolina Leopardi
Leopardi come poeta non ha raggiunto l’età matura. Ora la giovinezza di un uomo veramente significativo sarà particolarmente incline a generare un mondo fosco, e Leopardi è sempre rimasto fedele alla sua gioventù. Ma ciò non è avvenuto soltanto sotto forma di elegia, ma anche in una produzione prosaica piena di decisione satirica e di ribelle amarezza. Poiché per lui la realizzazione di ciò che è giusto in questo mondo pessimo non è soltanto qualcosa di eroico, ma richiede costanza e sagacia, scaltrezza e curiosità.
Walter Benjamin
Il pensiero leopardiano non assume, né mai ha inteso farlo, un procedere sistematico. Nella tipologia letteraria l’autore non vuole identificare un semplice veicolo, sostituto funzionale del discorrere filosofico isolato: piuttosto, la poesia si annuncia subito premessa sostanziale ed esclusiva all’esserci, al suo emergere dall’andamento generale. È “forma” necessaria affinché lirica e taglio riflessivo si controllino e coinvolgano a vicenda, nel clima di attesa suscitato dalle analogie principali. Pur cogliendone lo scopo globale, ritengo pertanto siano da scartare riduzioni strumentali del linguaggio simbolico al ragionamento (e viceversa), organizzando di sicuro tra loro parole allacciate a un argomento valido, sempre attenti, però, a non trascurare l’armonia e il fascino della musica, del ritmo. La poetica di questo illustre romantico segnala una strada di bellezza sensibile e operativa, dinanzi a qualsiasi ulteriore valutazione.
La setta dei poeti estinti
Nel film L’attimo fuggente (Dead Poets Society, 1989) di Peter Weir, sceneggiato da Tom Shulman, il professor John Keating si rivolge agli studenti con il memorabile esordio:
“Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Per citare Whitman: “Oh me, oh vita !/Domande come queste mi perseguitano/infiniti cortei d’infedeli/città gremite di stolti/che vi è di nuovo in tutto questo/oh me, oh vita! Risposta:/Che tu sei qui/che la vita esiste e l’identità/Che il potente spettacolo continua/e che tu puoi contribuire con un verso”. Quali saranno i vostri versi?”
A prescindere dalle lusinghiere responsabilità implicite nell’acquisire i modelli artistici, eleganti e arditi, legati a un’ideologia affine (ad esempio, a lato dell’“eroismo” romantico), nei risultati di tale scelta sarà legittimo non tralasciare l’intrinseca forza simbolica d’impatto, tipica di un colloquio con gli altri promosso sulla base dell’interiorità incontaminata di se stessi, ostile a luoghi comuni e standard esistenziali diffusi: “Non importa cosa si dice in giro, parole e idee possono cambiare il mondo”, ammonisce l’emblematico Keating (l’attore Robin Williams) ai ragazzi intorno a lui, stupiti e un po’ scettici.
Laddove sussiste, quindi, risoluto e coerente un rifiuto in campo culturale di compromessi e vincoli codificati – al giorno d’oggi assai invasivi – accanto a una carica complice di princìpi sorretti da pessimismo non rinunciatario ma drastico e rigoroso, emerge severo un costrutto utopico a segnare discontinuità, a indicare una via d’uscita, nonostante sia, nel contesto, di là dal compiersi. Amiamo la poesia per vivere, non per perdere tempo di vita.
Distanti da lamentele abituali e rimpianti consolatori, contribuiamo alla fiducia nel vero arginandone con pazienza la tristezza (celebrata nel film in uno svolgersi lineare e commovente); è lecito agire appellandosi a “forme” e “frasi” disponibili a ognuno per limitare le cause devastanti del “brutto potere” nascosto tra le cose; è consentito azzardarsi a custodire il prezzo sociale della verità; è doveroso, in tutto ciò, investire il massimo dello scrupolo e della tenacia: ecco le caratteristiche di un pessimismo lucido e battagliero, messaggio corrente o in atto se si colloca in ottica prioritaria il disegno o la personificazione del nostro Pensiero Dominante.
Il ciclo di Aspasia: Pensiero dominante
Articolato in endecasillabi e settenari, Pensiero dominante è uno dei cinque componimenti dedicati a Fanny Targioni Tozzetti e inseriti nel cosiddetto “ciclo di Aspasia”, elaborato tra il 1833 e il 1835. Nell’intera raccolta, l’amore è inscindibile dalla riflessione, essendo il canto, del resto, energico documento di erudizione e polemica riguardo all’ignoranza e all’ipocrisia, padrone indiscusse del retroterra meschino, ospite ingrato di questo potente moto dell’anima. Walter Binni afferma: “In ogni strofa pulsa con la stessa forza e la stessa volontà di presenza il pensiero d’amore, ed ogni strofa più che con la precedente e con la successiva è direttamente legata ad un centro poetico”. È appunto la magia di un affetto trascinante, di una passione; per Mario Fubini, la “costante presenza del pensiero d’amore trova, all’interno di ogni singola strofa, il suo equivalente musicale in una serie rapida e contratta di movimenti sintattici tesi da robuste inversioni”. Valuto anche opportuno non dimenticare il criterio lessicale del titolo, dove pensiero non è astrazione “intellettuale” bensì “amorosa”, “sentimento”: in sintonia con la consuetudine culturale italiana vicina al Petrarca, considerato fonte ispirativa influente tra metafore e analogie.
È rivelatore inoltre l’impiego del vocabolo “pensiero”, mai sostituito da “amore”, assente nei versi. Si chiede Karl Vossler: “Perché è evitata la parola e dissimulata la chiave? Evidentemente perché di fronte alla novità dell’esperienza essa sarebbe apparsa troppo logora, perché ogni appicco a cose già passate e già esistite avrebbe potuto dare l’impressione di uno sminuimento”. Il rapporto amoroso è una coscienza di utopia in progress, un progetto che nessun evento – sinora – è stato in grado di avverare bloccandone con atteggiamenti risolutori il divenire ininterrotto.
“Dipinte in queste rive/son dell’umana gente/le magnifiche sorti e progressive”. La solenne immagine a chiusura nella stanza iniziale de La ginestra, in corsivo originale, è presa in prestito dall’introduzione agli Inni Sacri pubblicati dal cugino, il filosofo e politico Terenzio Mamiani: “Amarsi l’un l’altro come uguali e fratelli, chiamati a condurre ad affetto con savia reciprocanza di virtù e di fatiche le sorti magnifiche e progressive dell’umanità”. Sebbene le parole estrapolate dalle pagine citate si distacchino – smentendola – dalla visione confortante della “legge evangelica di una grande patria” della quale sarebbero state il “comando”, l’enfatico e sarcastico sprone – scaturito e girato a noi, soltanto a noi – di confidare sul proprio contegno, non si smarrisce l’emozione di un vasto appello molto al di sopra dello status etico e socio-economico condannato da Leopardi: gli esiti di quel patto fraterno non ne hanno arrestato lo sviluppo nella successione di un progresso indifferente ad amore e solidarietà, essendo infatti progressivi, un gradino avanti nel sistema, con le richieste di altruismo e lealtà non ricambiate. Spetta, dunque, ancora a noi “contribuire con un verso” all’altezza di avanzare nell’esteso itinerario in corso.
Malgrado Leopardi letterato-erudito sia il primo autore di poesie d’amore moderne, la maggior parte della produzione non corrisponde, a rigore, al classico repertorio. È utile allora interrogarsi sulla specifica varietà di impeto, di pathos, di slancio, e in particolare per chi, per cosa intraprenda un capovolgimento di meriti di tale entità, opponendosi allo snaturarsi e all’alienarsi in un paesaggio inospitale o minaccioso, avversando inganni e miti di falso ottimismo, responsabili della pesante condizione dell’individuo e volto impietoso dell’ambiente circostante. L’amore preservato da Leopardi è destinato all’uomo, lo scagiona e lo discolpa, forte di un’inquietante tensione vissuta tra la gente: chiunque lo condivida, se preferisce e ne ha pratica, è importante ne prosegua il viaggio. Nella sostanza della poetica agisce “una inesausta passione per l’umanità (anche quando appaiono elementi misantropici, di un amore deluso, ‘par trop aimer les hommes’ per dirla con Stendhal)”, come nel pensiero promotore del ciclo di Aspasia. Passione per il prossimo, “per la sua integrità, sia che essa venga ritrovata nell’adesione alla natura, e alle illusioni generose da quella generate; sia che essa venga più tardi confermata nella virile capacità di mettere alla prova la sua sorte misera e tragica”, evitando di accettarla con spirito passivo e rassegnato.
Senza dubbio magistrale la metodologia di Binni, arricchita di un’inedita consapevolezza del sé, della portata alternativa di un progetto-amore e dell’attitudine a formulare un contegno etico antagonista alla dimensione interiore e concreta, falsificata da servitù e dipendenze irrispettose di desiderio e felicità. Interprete attualissimo, il Leopardi, alto testimone di sofferenza e lavoro quotidiano, benché scomparso nel lontano 1837: pochi artisti si possono dichiarare estranei a un’atmosfera creativa tanto intensa. Nondimeno, a quasi quattro decenni dall’entrata in scena nell’attività critica binniana del carismatico volume La protesta di Leopardi (1973), alcune tematiche della poetica lì esaminate con insistenza, se osservate alla luce di parametri ormai avulsi da determinate suggestioni dell’epoca, si scoprono abbastanza soggette ad alterazioni e procedimenti – peraltro da me sperimentati – privi di presupposti organici, e non invece, almeno in prevalenza, accidentali o contingenti. Non sono attratta dal fascino di una comprensione dei messaggi artistici assoluta, anzi, provo a strappare da un misterioso isolamento la bellezza e la sua aura irripetibile, dotandola (se posso) di un insieme di allusioni ulteriori: sforzandomi sempre di non cedere alla tentazione di lasciare alle spalle la fisionomia tangibile – stile, scuole di riferimento, somma caratteriale di informazione, cronaca, ecc – destinata a rimanere in larga misura di per sé decisiva.
La poesia di Giacomo Leopardi, tuttavia, pur non avendo messo in moto una scuola di stile forse a causa di una sintesi singolare e inconsueta, ha fondato un’area di ricerca frequentata di continuo, disposta a resistere e opporsi a personali o pubblici “oppressori”: da smascherare nell’aspetto camuffato di complesso gerarchico scandito da rigidi traguardi, da tappe di egoismo mortificante, in auge nelle strutture capitaliste, maggioritari nei regimi a stampo socialista; ostacoli inibitori da abbattere, a discapito dell’asservimento ai moduli autoritari delle società di massa. Detrattori di tale famiglia o classe di poeti/poesie sulle tracce di un romanticismo universale, “non sono gli uomini”, spiega Binni, “ma le loro immagini degradate dalla viltà, dalle menzogne interessate o sciocche, dalle ideologie spiritualistiche, religiose, reazionarie, e, dietro quelle, l’ordine naturale della realtà sbagliata e corruttrice”.
Verso La ginestra
Ebbene, fin qui siamo d’accordo. In seguito lo studioso, mio maestro, dichiara però:
“Supremo contestatore dei sistemi storici della Restaurazione reazionaria o del moderatismo liberale-spiritualistico, Leopardi è insieme supremo contestatore del sistema stesso della realtà e del suo ordine ferreo e scellerato, di cui lo stesso appassionato sostegno al sistema benefico della natura (così diverso comunque da quello di un sistema religioso basato su di una doppia realtà terrena e ultraterrena) serve a rivelarne – proprio sostenendolo inizialmente e indagando poi sino in fondo – la più vera realtà di ordine crudele e oppressivo per l’uomo”.
Ed ecco divergere il cammino analitico: il nemico consistente e fattuale combattuto e contrastato suppongo fosse per caso, per pura sorte, la “Restaurazione reazionaria o del moderatismo liberale-spiritualistico”, dal momento che in quel preciso assetto economico-materiale il poeta scorgeva esemplificato un solido campione di contraddizioni onnipresenti, in un modo o nell’altro, a tormentare gli uomini, fino a quando, una volta stretti da sentimenti di “fortuna”, di fato collettivo e dovere civico solidale e reciproco, non si decidano, in ultimo, a “confederarsi”. Accade nella Ginestra, grazie all’ardire di un ponderato e non velleitario pensiero-sentimento schierato a sconfiggere il destino iniquo delle persone, costrette, in mancanza di ribellione, alla pena di veder annientate sacre e legittime aspirazioni all’essere felici: le uniche a proteggere da condizionamenti sommari o categorici, comunque si colorino.
Per gli eredi dell’amore eroico leopardiano di rievocazione della vita, antiretorico poiché avulso da convenzionali opportunismi, il compito da assumere sarebbe la tutela e l’espansione di un coraggioso “vero”, in qualunque tragitto e occasione lo si voglia inserire e per quanto duro e inaccettabile esso possa svelarsi. Attraverso il linguaggio conoscitivo della poesia, che consente a chi ascolta di servirsi di valori privati e non solo, si chiarisce l’incarico di salvaguardarli e difenderli dallo sfruttamento cieco, costruendo le fondamenta di un microcosmo poetico di noi e per noi, su una matrice causale non deprimente e vittimista ma sintomo, indizio di un pessimismo lucido e vigoroso.
Un’onda lunga?
Nel 1937 nascevano due opere di “scoperta”, nel cuore dell’orientamento esegetico appena esposto: Leopardi progressivo di Cesare Luporini e La nuova poetica leopardiana di Walter Binni. Il sigillo di un poeta ritroso e refrattario all’ambiente contemporaneo dell’Ottocento risorgimentale si trasforma in un affondo calcolato e meditato, una breccia scavata nel mondo italiano ed europeo: i suoi scritti vengono accolti tra le interpretazioni lucide e raffinate della stagione romantica internazionale, di impronta materialista, all’insegna di risposte antinomiche alla negatività imperante.
Per ovvi motivi connessi al periodo fascista, un simile profilo intellettuale avrebbe alimentato un’autentica disputa accademica e mass-mediale solamente più in là: negli anni Settanta inoltrati, nel dibattito tra “leopardisti” e “manzoniani”, dentro le aule universitarie e all’esterno, si accendevano ipotesi stimolanti sul poeta, rischiose e fuori dalla norma. Parliamo dell’”onda lunga”, l’enigmatica formula di ascendenza marxiana battezzata in èra staliniana da Nikolaj Kondrat’ev per definire (e preconizzare) cicli regolari dell’economia, crescite e depressioni. Le sinusoidi di Kondrat’ev, censurate dai bolscevichi, vennero poi liberamente modulate in una cerchia umanistica, assumendo un’accezione predittiva, previsionale, quasi profetica, a lasciar intendere l’esistenza di artisti dotati di mezzi tecnico-semantici adeguati ad anticipare in qualche maniera l’aria storica dei tempi, a intravedere, in un panorama complessivo e non nel dettaglio, movimenti e idee sul punto di estendersi – proiettati in un domani non stabilito – a sintesi realistiche o verosimili. In un clima fortemente ideologizzato si recuperava così La Ginestra, datata 1836, in chiave epifanica delle tesi rivoluzionarie del “Manifesto del Partito Comunista” del 1848.
La concezione leopardiana si saldava con “democrazia rivoluzionaria” indicata da Luporini a prova dell’impegno democratico del poeta, esortazione a unirsi nel consorzio (la “social catena”) di un socialismo ante-litteram. Nel 1942, Luigi Salvatorelli suggeriva: “Non sono pure fantasie poetiche: vi è il presentimento del socialismo, della Società delle Nazioni, dello “stato scientifico”, di tanti problemi e di tanti ideali che affannano già oggi l’umanità anche se il loro scioglimento – in quanto di scioglimento si può parlare – sia riservato a un lontano futuro”. Già Francesco De Sanctis aveva notato: “Se il destino gli avesse prolungato la vita fino al ’48, senti che te l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore”.
Di conseguenza, “quell’orror che primo/contra l’empia natura/strinse i mortali in social catena”, risuonava nei termini di una rivolta totale ai soprusi – su deboli o inermi – di prepotenza o riduzione di libertà. Ma il problematico e ampio canto fissa l’obiettivo da colpire in uno stato di fenomeni immanente che, tuttavia, incombe sulla volontà di affermazione umana: nonostante l’accenno ironico e amaro alle vuote fantasie gestite da un’egemonia ipocrita ed egoista, la sola strategia capace di superare la condanna perenne è rappresentata dall’identità di interessi, dalla tutela di doveri e diritti allargati. È auspicabile un sovvertimento tumultuoso? Ne rimarremmo schiacciati, poiché il cratere del male prevarrebbe, indifferente, sulle nostre battaglie, inghiottendo e pietrificando con la lava di inganni e violenza le sventurate, effimere sommosse.
Nella vita si dovrebbe proseguire nel solco della ginestra, mentre piega lo stelo sommersa dalla colata distruttiva del vulcano: poi, silenziosa, eccola intenta al lavoro quotidiano indirizzato a piantare nuove radici sulla coltre pietrosa ora scaldata dai raggi del sole. Il cespuglio giallo e profumato, l’”odorata ginestra/contenta dei deserti”, accostata al segno dell’uomo, illumina con emozione la tragica impossibilità di sconfiggere definitivamente l’aggressione della morte e del dolore (“le frali/tue stirpi non credesti/o dal fato o da te fatte immortali”). Nondimeno il poeta, nell’ideale colloquio, confessa soddisfatto, ammirato: “Or ti riveggo in questo suol, di tristi/lochi e dal mondo abbandonati amante”, in procinto di offrirsi e mostrarsi a esistenza rinnovata, meditata, non irruente né servile. Anch’essa, come la morte che l’ha generata, invincibile, perché all’interno di una straziante richiesta di sopravvivenza alla catastrofe sterminatrice, sotto forma di un toccante impulso di vendetta allo sconforto immotivato, inutile, e alla sopraffazione.
Nessuno scontro di classe, dunque, consigliavano Binni e Luporini: la catena, lo spirito di corpo in essa celato, non prefigurava come un’onda lunga l’avveramento della fratellanza egualitaria del comunismo siglata nel ‘48: La Ginestra sarebbe stata proiettata in orizzonti di avvenimento sconfinati, sulla cresta di “un’onda più lunga” nell’avvicendarsi della storia, equivalente a una spinta utopica finalizzata ad assalire il male attraverso strutture avversarie delle regole borghesi imposte dall’alto. All’occasione, però, Leopardi rifiutò di avere il benché minimo ruolo nella dinamica risorgimentale: nel marzo del 1831, dopo i moti, una radicata diffidenza nei confronti di qualsiasi illusione di rinascita politica lo indusse a non accettare la nomina a deputato di Recanati nell’assemblea che avrebbe dovuto aver luogo a Bologna.
La voce della poesia
A essere sinceri, con serenità di giudizio, non vorrei disperdere l’ampiezza del pessimismo leopardiano, aggredito e angosciato dalla negatività dell’uomo medesimo se lasciato sprofondare nella densa rete di lusinghe e fraintendimenti ideati per sfruttarlo allevandolo ignorante di se stesso. Nel 1832, in una missiva al padre Monaldo, sostiene: “Io non sono stato mai né irreligioso, né rivoluzionario di fatto né di massime”, comunicando di convivere con l’ansia assillante e tormentosa di ottenere un “vero” superiore alla pochezza della coscienza approssimativa dei contemporanei, alla desolante insignificanza “dell’umana gente”, mantenendosi ignaro di religioni dalle scarse opzioni di salvezza, accompagnate, come se non bastasse, dall’inganno di un remoto aldilà provvidenziale e compiacente. L’appello utopico era riservato, semmai, alla voce della poesia, unica, eventuale candidata a modificare la natura matrigna. Dell’uomo, per iniziare: certo condizionato, facilmente ricattabile in ragione della fragilità, ma – come la ginestra – dignitoso e nobile, meritevole di essere allontanato, fin che si può, da una scomparsa misera e disperata. Poco prima di morire, da Napoli scriveva al padre Monaldo: “Ora il mio principale pensiero é di disporre le cose in modo, ch’io possa sradicarmi di qua al più presto; ed Ella viva sicura che quanto prima mi sarà umanamente possibile, io partirò per Recanati, essendo nel fondo dell’anima impazientissimo di rivederla”.
Riservando un accenno ad Alessandro Manzoni, oggetto anch’egli di immotivati e sommari schematismi – evidenti nel commento di Carlo Salinari alla Provvidenza nei Promessi Sposi, “onda lunga” del futuro assetto della borghesia ottocentesca – reputo sia d’obbligo concedere alla teoria dell’”onda lunghissima” perlomeno il pregio di aver collaborato a sottrarre l’universo leopardiano alla trappola dei conformismi ricorrenti e consolidati (dall’immancabile “pessimismo” cosmico, distruttore inappellabile di speranze, al masochismo dell’essere emarginato, dagli innamoramenti non corrisposti per l’aspetto sgradevole, alla natura matrigna artefice della sua condanna alla salute cagionevole). La “social catena”, piuttosto, ancora con Fubini, non è “difesa, ma accusa, non più lamento ma invito a un’azione comune, una comune lotta (lotta disperata, dice il Timpanaro) contro la natura, degli uomini affratellati nella consapevolezza del loro reale stato, non più illusi da filosofie menzognere”, da abitudini indotte al passo con i costumi e le modalità economiche vigenti.
Assecondiamo allora un giudizio-sentimento dominante, propenso a spalancare un orizzonte “umanamente vitale e antiascetico”, in linea con le note di Emilio Bigi:
“Se il poeta insiste sulla necessità di riconoscere spregiudicatamente l’ostile crudeltà della natura e la radicale infelicità della condizione umana, se arriva a desiderare la morte, ciò non esclude, anzi presuppone proprio, la ferma persuasione del diritto dell’uomo, di ogni uomo, a vivere la sua vita, a non patire, e a godere quella felicità terrena che di sua natura gli spetta”.
A quanti credono sia giusto verificare gli strumenti accessibili, ancorché limitati, idonei a usufruire di un diritto conforme, tocca appellarsi al piacere vivace, attivo dei versi: a loro ricordo l’ansia, l’istinto d’amore di Leopardi contenuto nella “suprema manifestazione vitale, che impiega il nucleo più vitale e genuino della nostra individualità terrena e quindi quale massima espressione dell’umana tensione alla felicità”.
Amare insieme agli altri, non permetterà di raggiungere gioia, entusiasmo e appagamento per diritto assodato. Purtroppo è “vero” il contrario: indurrà a sfidare lontananza, abbandono, solitudine; ma la disillusione di un intreccio di attrazione, fedeltà e attaccamento, per quanto estrema, come la morte – la scomparsa di un uomo, una donna, un figlio, un ideale – non potrà essere che l’ennesimo intervallo di conferma della validità del percorso. “Oh capitano, mio capitano!” invoca il giovane Todd Anderson nella magica sequenza finale del film, richiamando le strofe di Walt Whitman: “O capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è finito/la nave ha superato ogni tempesta, l’ambito premio è vinto/Il porto è vicino, odo le campane, il popolo è esultante”.
CINZIA BALDAZZI
Buone informazioni utili agli studenti!